Vi siete mai chiesti quanta acqua occorre per produrre una semplice maglietta di cotone? La risposta arriva dal rapporto: “Quant’acqua sfruttiamo”, redatto dal SERI – Sustainable Europe Research Institute su commissione della sezione europea di Friends of the Earth (Amici della Terra). Per fabbricare una t-shirt si utilizzano in media 2.700 litri d’acqua, dalla piantagione di cotone all’arrivo al consumatore.
E ancora, 7.500 sono i litri di acqua che consumiamo, indirettamente, quando compriamo un paio di jeans, mentre 8.000 litri rappresentano l’impronta idrica di un paio di scarpe di pelle (sempre secondo il rapporto del SERI).
L’impronta idrica nell’industria tessile e dell’abbigliamento, in particolare, ha raggiunto, dunque, livelli abnormi che non dipendono solo dalla coltivazione della materia prima, ma anche da tutte le fasi successive della lavorazione.
Vediamo perché.
Prendiamo come esempio il cotone, che è, da sempre, la fibra più utilizzata al mondo e che, tra tutte, è quella con l’impronta idrica più elevata.
In media nel mondo, per produrre 1kg di cotone tessile, occorrono circa 11.000 litri d’acqua, di cui solo il 45% è utilizzato per l’irrigazione delle piante.
Una volta che il cotone viene raccolto, viene inviato al cotonificio per essere tessuto e tinto e alla quantità d’acqua necessaria per la coltivazione della materia prima si aggiunge l’acqua per la produzione dei tessuti e quella per la produzione vera e propria dei nostri capi.
In definitiva. 93 miliardi di metri cubi è la quantità d’acqua che ogni anno viene consumata dall’industria tessile e dell’abbigliamento tra coltivazione e produzione. L’abbigliamento, da solo, consuma 62 miliardi di metri cubi di acqua all’anno. Questi dati sono citati nel report della Ellen MacArthur Foundation, l’organizzazione internazionale, punto di riferimento su temi quali la sostenibilità e l’economia circolare.
Il ruolo del fast fashion, la moda “usa e getta”
A tutto ciò si aggiunge il fatto che acquistiamo decisamente più del necessario. Il fast fashion ci ha abituati ad una grande disponibilità di vestiti a prezzi bassi: li compriamo, li indossiamo un po’ di volte e li buttiamo appena si rovinano o non ci piacciono più.
Non solo, con l’esplosione dell’e-commerce le cose sono decisamente peggiorate. Il commercio elettronico ha reso lo shopping una forma di intrattenimento costante e disponibile, contribuendo in modo significativo all’aumento delle vendite. Gli acquisti online, inoltre, aumentano in modo esponenziale l’uso di imballaggi, sia di cartone che di plastica, incrementano le emissioni di carbonio per il trasporto delle merci e incentivano gli sprechi.
Acqua che inquina acqua
Ma non è solo il consumo smodato dell’acqua il problema della produzione di abbigliamento, anche l’inquinamento idrico desta grande preoccupazione.
Molte delle fabbriche legate al circuito della moda, infatti, riversano le acque inquinate, utilizzate nei vari processi di tintura e rifinitura dei capi, nelle risorse idriche naturali avvelenando così fiumi, mari e le acque sotterranee. Sono soprattutto i Paesi in via di sviluppo a pagare il conto più salato di questa prassi. Parliamo di quelle aree dove le normative lavorative e ambientali sono carenti, per esempio in Cina, Bangladesh, India e Turchia. Gli stessi Paesi dove producono, tra l’altro, la gran parte dei colossi del fast fashion.
Negli ultimi anni, però, molte aziende del settore moda hanno adottato politiche e pratiche per ridurre l’impatto ambientale del loro operato sull’acqua. Alcune, ad esempio, hanno introdotto tecniche di produzione sostenibile che utilizzano meno acqua. Hanno, inoltre, implementato programmi di riciclo e di recupero dell’acqua usata nei processi produttivi. Altre ancora hanno lavorato per ridurre l’inquinamento idrico causato dai loro rifiuti e operato scelte alternativa nell’utilizzo delle materie prime, prediligendo tessuti a basso consumo idrico ai materiali tradizionali.
E ancora. Tra le fibre utilizzate per realizzare i vestiti ne esistono alcune che presentano un’impronta idrica molto minore. È il caso del cotone biologico, realizzato senza sostanze chimiche e diserbanti o del cotone rigenerato, riconoscibile dalla sigla GRS sull’etichetta.
L’alternativa per ridurre l’impronta idrica del nostro armadio, dunque, esiste, sta a noi scegliere! Vuoi sapere come fare? Leggi i nostri consigli nel secondo articolo di questa serie in uscita a breve e ricorda: ridurre la domanda rimane pur sempre l’opzione migliore.